Farmaci. Trasparenza dei costi o dei prezzi?
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Ieri l'Organizzazione Mondiale della Sanità riunita a Ginevra ha adottato la risoluzione proposta dall'Italia sulla trasparenza del prezzo dei farmaci, benché ridimensionandola ad esortazione agli Stati ma senza obblighi.
Però i prezzi dei farmaci in Italia sono trasparenti che più di così non potrebbero essere. Li definisce AIFA negoziandoli con le Imprese e sono pubblicati in Gazzetta Ufficiale.
A volte le due parti concordano un “non transparent discount”, uno sconto non pubblicato, ma sempre appunto deciso con AIFA nella stessa sede negoziale (CPR – Commissione Prezzi-Rimborsi). Prezzo scontato che diventa trasparente al primo acquisto di un ospedale pubblico o di una farmacia (trasparenti)
Inoltre a livello locale, acquisti regionali o locali, come faceva correttamente notare qui su QS Andrea Messori, le strutture pubbliche hanno l’obbligo di legge di pubblicare sui propri organi i risultati di gare e trattative, quindi anche lì totale trasparenza.
Stiamo parlando in realtà, qui la furbata semantica, di ricerca della trasparenza dei costi non dei prezzi. Costi sostenuti dalle Imprese per i propri farmaci sono per ricerca, sviluppo, produzione, marketing, distribuzione, amministrazione, oneri finanziari, ecc., in economia cosiddetti COGS (Cost of Goods Sold).
Che sottratti al prezzo danno il profitto dell’Impresa. Conoscere i costi permetterebbe ad AIFA di costruire su essi il prezzo di rimborso (il punto era in uno dei primi programmi 5 Stelle e oggetto di varie dichiarazioni dell’allora deputata Grillo)
Va detto che proprio sui costi la richiesta italiana è stata smorzata, quasi diluita omeopaticamente, dall’assemblea OMS che l’ha ridotta ad esortazione di principio su produzione e ricerca
Due riflessioni sul calcolo dei costi. Prima riflessione: è corretto di un bene privato volere conoscere i costi sostenuti dal suo proprietario-produttore? Se vale per i farmaci, dovrebbe essere esteso a qualunque bene di consumo, dalle fettuccine, all’auto, al telefonino alla signorina sulla statale e così via.
Sarebbe complicato calcolarli e pure anticoncorrenziale pubblicizzarli, e probabilmente nel medio lungo termine anche inflativo, portando ad un aumento dei costi intermedi e quindi del prezzo finale. Il contrario di quanto si propone AIFA.
La seconda riflessione riguarda la fattibilità e l’attendibilità di un tale potenziale calcolo del costi. Cosa inserirci dentro relativamente a quel farmaco? Come calcolare l’impatto sul farmaco X dell’ammortamento degli uffici di Londra, o di Boston o di Milano o della mensa dell’impianto di produzione di Shentzen? O delle minusvalenze della borsa di Francoforte sul titolo? O dei costi dei fallimenti in R&D per altre molecole? O delle oscillazioni dei prezzi delle materie prime necessarie? E potrei andare avanti a lungo.
Ma posto anche che per decreto Imperiale s’imponga di rendere trasparenti questi costi dell’impresa, e qualche Nobel da Alfa Centauri ci aiuti a calcolarli esattamente, e quindi aggiungendo i profitti arrivare al prezzo di rimborso.
Quale sarebbe il giusto profitto da aggiungere “ope legis”? Il 10%, il 20%, il 90%? Uguale per tutti i farmaci e aree terapeutiche? Chi stabilisce e come il valore di “giusto” profitto? Qual è per il panettiere sotto casa? E per il produttore dello smartphone appena uscito? O per il gestore telefonico? O per il Top Manager dell’impresa dallo stipendio 500 volte quello di un suo operaio? O per il calciatore semi analfabeta tatuato anche dietro le orecchie? O per il medico specialista privato che ci visita?
Dai costi più il profitto “di legge” deriverebbe il prezzo da negoziare (a quel punto sarebbe meglio dire assegnare) da AIFA a quel farmaco. Economia pianificata, commenterà non stupito il colto e l’inclita. Ma così torneremmo ai fallimentari metodi CIP in auge fino al 1994, quelli di Poggiolini, tanto per capirci. Oggi dismessi ovunque (ne resta un residuo metodologico in Ungheria)
È il Metodo “Industriale” di costruzione del prezzo, basato appunto sui costi, oggi da noi applicato alle commodities (luce, acqua, gas). E infatti i loro prezzi al consumo sono i più alti d’Europa e dell’OCSE (i nostri prezzi dei farmaci sono invece i più bassi, tanto per capirci di cosa stiamo parlando)
Oggi invece, in tutto il mondo, i prezzi dei farmaci vengono definiti sul metodo “marginalista”, basato sul valore offerto dal bene stesso (l’esempio più esplicativo è il Cost x QALY del NICE inglese) e quindi dalla “willingness to pay”, la disponibilità a pagare, dell’acquirente. Che nel nostro caso è l’AIFA come “agente” rappresentante la collettività.
Il prezzo finale della transazione (nel nostro caso quello concordato per la rimborsabilità) è il punto d’incrocio delle curve tra quello richiesto da chi vende (Impresa) e quello disponibile a essere speso da chi compra (AIFA). Si o no, “altra scelta non essere”, direbbe il Grande Maestro Yoda.
Ognuna delle controparti orientata dalle proprie esigenze, forze e debolezze, quelle private per l’Impresa, quelle pubbliche (accesso equo a nuove terapie ed efficiente allocazione delle risorse pubbliche) per AIFA
Insomma, è facile trovare ideolo(demago)gicamente facile consenso affermando petto in fuori e mento in alto che sulla sanità non si dovrebbe fare profitto o che deve essere entro limiti. Siamo in qualche milione in Italia a “guadagnare” sulla sanità, facendo il nostro lavoro, di solito bene e onestamente.
Affermare che sulla salute il profitto o il guadagno debbano essere in qualche modo calmierati è idea romantica e istintivamente condivisibile ma avulsa dall’economia di mercato, per quanto opportunamente regolamentata, in cui viviamo.
E che si trascina anche un paradosso: volere remunerare meno proprio chi offre il bene dal più alto valore individuale e collettivo, il miglioramento della salute.
fonte:
Quotidiano Sanitą
